Alberto Chiancone

Alcuni testi su Chiancone

Vittorio Sgarbi

Non gode ancora di troppa considerazione critica la pittura napoletana fra gli anni Venti e Quaranta del secolo scorso.

Un periodo cruciale per la pittura italiana, con le influenze dominanti di Milano (Novecento) e Roma (Valori Plastici, Scuola di Via Cavour), e Torino (Gruppo dei Sei) per confrontarsi con una direzione in parte estroversa, più legata alla necessità del rapporto con i francesi moderni piuttosto che con la tradizione nazionale; e ancora con altri centri ugualmente impegnati in sforzi di modernità contro lo spettro del provincialismo (Venezia e Bologna, per esempio), con le grandi commesse pubbliche di Sironi e il secondo Futurismo, anche quando svolto a livello goliardico e dopolavoristico come unione nella nuova nazione artistica promossa dal Fascismo.

E Napoli? Napoli, anche farebbe parte, ma senza rilievi degni di nota. Indubbiamente una sorpresa, se si ricordasse lo straordinario ruolo di cui ha goduto la città partenopea qualche decennio prima.

Dalla Scuola di Posillipo fino al tardo Verismo, Napoli è stata indiscutibilmente una grande capitale della pittura italiana: un periodo lunghissimo, quasi un secolo, fra Ottocento e Novecento, in cui solo Firenze e Milano sono riusciti a seguire, secondo una linea allo stesso modo alternativa e di integrazione.

Come mai, ad un certo punto, Napoli si sarebbe fermata?
Si potrebbe pensare, (ricorrendo un po’ al luogo comune) che la pittura napoletana è stata importante finché l’oleografia della natura e del folclore popolare sono stati argomenti al centro dell’arte italiana.
Poi, con l’avanzare della modernità, è iniziato il declino, in corrispondenza con l’affermazione a Napoli di altri generi capaci di mantenere uno stretto rapporto concerti temi tradizionali, come la canzone popolare, oppure il teatro di Viviani e Scarpetta.

Ma sarebbe del tutto improvviso considerare Napoli la città eternamente arretrata del sole, del mare e del Vesuvio, degli spaghetti e della pizza, dei mandolini.
In Italia, Napoli è stata una capitale anche della modernità: ha avuto la prima ferrovia, i primi grandi assi viari secondo la “ricetta Haussman”, i primi interventi urbanistici in bonifica dei quartieri popolari, la prima funicolare, il primo tentativo di metropolitana, il primo teatro lirico moderno, i primi cafè chantant, una galleria all’altezza di quella milanese, uno dei nuclei industriali più importanti dell’epoca giolittiana. Proprio nel pieno del ventennio fascista, che pure ha determinato per la città un ripiego rispetto agli sfarzi della sua Belle Epoque, Napoli è ancora in grado di produrre architettura modernissima ed originale come quella di Luigi Cosenza, quella della Mostra d’Oltremare, quella soprattutto del Palazzo delle Poste di Giuseppe Vaccaro e Gino Franzi, diventato un archetipo del Post- Moderno internazionale.

Come mai in questi anni, mentre Cosenza e Vaccaro spiccano, la pittura napoletana “dorme”?
In realtà la pittura napoletana non dormiva, come ci ha ricordato una mostra romana recente (Gli anni difficili); semmai prendeva atto di un ruolo certamente più periferico rispetto a quello assolto nel passato anche recente,
quando essere capitale del Sud non era certo meno importante di essere quella del Nord, confidando in un forte radicamento territoriale, senza la necessità di accodarsi pedestremente ai nuovi centri propulsivi della pittura italiana, ma senza neanche dimenticare l’apertura che la migliore cultura napoletana ha sempre rivolto agli apporti provenienti dall’esterno.

In questa temperie complessiva si colloca la vicenda di Alberto Chiancone (1904-1988), figura molto importante della pittura moderna napoletana, del quale quest’anno ricorre il centenario dalla nascita.
Un’occasione che si spera di sfruttare in un modo migliore di quanto non sia successo l’anno scorso a Giovanni Brancaccio, fra i maggiori esponenti della pittura napoletana dopo l’esaurimento della stagione verista, riportando l’attenzione su un’artista la cui intensa, imprescindibile “napoletanità” ha probabilmente impedito una sua maggior conoscenza a livello nazionale.

La sintesi del percorso artistico affrontato da Chiancone fra gli anni Venti e Quaranta può trovare spunto da due giudizi espressi a circa quindici anni di distanza l’uno dall’altro da Cipriano Efisio Oppo, l’artista sardo diventato il grande patron politico della pittura italiana durante l’epoca fascista.
Nel 1925, sulle pagine de “La Tribuna”, Oppo riscontra nel giovanissimo Chiancone un talento condizionato da una “certa insistenza caricaturale”.

E’ un giudizio severo e professorale, dall’alto di chi credeva di avere individuato in Valori Plastici e in Novecento le nuove misure dell’arte italiana, pregiudizievole nei confronti di una tradizione napoletana verista, formidabile e modernissima, che viene interpretata come sinonimo di folclore, aneddoto, chiassosità, carenza di controllo formale, localismo. In realtà, già da allora Chiancone sembra impegnato in un’opera di netto ridimensionamento del Verismo ancora insito nella pittura napoletana, liberato dalla retorica più pittoricista e popolarizzante, ma senza rinnegare drasticamente, senza possibilità di riscatto, che Oppo avrebbe probabilmente preteso.

E’ una scelta intelligente, da chi aveva diretta coscienza di cosa volesse dire dipingere a Napoli in quel momento, perché il Verismo permetteva ancora di essere un favorevole viatico alla lettura critica dei Post-Impressionisti, dei Fauves e dei Nabis come presupposto di una pittura rinnovata, magari non “italiana” come Oppo avrebbe preferito, magari non “richiamata all’ordine” fino in fondo, ma certamente moderna almeno quanto lo erano Valori Plastici o Novecento.

Qualcosa nell’obiezione di Oppo, però potrebbe aver colpito il giovane Chiancone, se è vero che negli anni a seguire i suoi orientamenti formali ebbero a modificarsi proprio nella direzione auspicata dal pittore sardo.
La pittura di Chiancone diventa più disegnata, più plastica, a suo modo più “italiana”, innanzitutto per ciò che riguarda la figura; il “caricaturale” rilevato da Oppo diventa formalismo raffinato, perfino vicino a Modigliani in certe occasioni, che nulla concede all’aneddoto colorito e che porta nella popolazione napoletana una nobiltà nuova, asciutta, dignitosa, comunque cordiale, mai altezzosa, ma anche attonita, quando non malinconica nel prendere atto della fatica di vivere.
Niente potrebbe essere più lontano dai toni facili e consolatori delle canzonette.
E quando Chiancone affronta la modernità dei costumi, come nella sua nota Funicolare, ci si accorge che l’ardita prospettiva a cannocchiale circoscrive una civiltà metropolitana che potrebbe essere quella di Napoli come quella di Parigi o di New York. Oppo, ancora nelle pagine de “La Tribuna”, gliene darà atto, definendolo nel 1939 “il più milanese fra i napoletani”.

Eppure, anche nel suo momento più “italiano”, Chiancone non aveva mai rinunciato a sottomettere la forza espressiva del colore, capace di disintegrare i contorni e di polverizzare le masse più compatte: è in ciò che consiste maggiormente la sua renitenza al nuovo classicismo “latino” di Sironi e, sfiorato, ma mai adottato, anche per la sua incapacità di stabilire un contatto diretto con la particolare realtà napoletana.

Finito il fascismo, finita la leadership di Oppo, Chiancone ha modo di sviluppare liberamente le sue propensioni coloristiche, le sue figure, le sue scene di vita, il suo paesaggismo che, dopo aver rinnovato il repertorio oleografico del “paese d’o sole”, ricerca nella campagna aspra e genuina l’anima più autentica della “napoletanità”.
Si tratta quasi di una nuova personalissima ripresa del vecchio Verismo, come se questi rimanessero i registri più consoni per carpire il senso della vita in quell’universo tutto speciale che si chiama Napoli.

Da Alberto Chiancone, Edizioni Cinquantasei, Bologna, 2004/2006