Alberto Chiancone

Alcuni testi su Chiancone

Raffaele Nigro

Ho avuto il primo approccio a Chiancone frequentando la quadreria Lamorgese, un collezionista che vive nella mia città: le sarte, le ballerine, i pulcinelli di quel limbo silenzioso che traspare da un mondo che solo in superficie sembra seguire la maniera napoletana. Nelle lunghe conversazioni con Benito Gallo Maresca ho poi approfondito una conoscenza rimasta fino ad allora solo di pelle. Gallo Maresca è stato allievo di Chiancone, all’Accademia di Napoli  e, dal maestro ha mutuato la necessità di dipingere dal vero, di leggere nel libro della realtà per potersi poi astrarre e ricavare una propria idea del mondo.

Colgo in Alberto Chiancone due sentimenti contigui, due atteggiamenti che a primo acchito mi sono parsi persino opposti e che danno poi esiti pittorici e sentimentali conseguenti. C’è il pittore della memoria, il pittore che ritrae i dolci luoghi della giovinezza, Amalfi, Castellammare, la Costiera, il  Vesuvio e le sue ville e poi c’è il Chiancone della malinconia esistenziale.

I colori pastello, la solarità chiarista dei paesaggi fanno fiorire l’interpretazione nostalgica o perlo-  meno incantata dalla contemplazione di un paesaggio o dalla memoria del paesaggio. Questa la definirei l’arcadia di Chiancone, ma anche il luogo della consolazione o delle illusioni.

Poi il pennello si annerva, vuole saperne di più dall’interrogatorio alla vita e la sospensione rasserenante lascia spazio ad altro. E’ vero che la Napoli di Eduardo, l’inferno metropolitano di quel ventre magmatico che è Napoli spinge il pittore verso un mondo sociologicamente ben definito, la piccola borghesia artigiana, la miseria, i quartieri spagnoli. Un saggio di questa pittura che rimanda allo pseudo naif di Rosai è nelle rappresentazioni di pescatori, di giocatori di carte, di sartine.

E’ vero che la lotta quotidiana per la sopravvivenza è rilevante in un pittore dalla profonda sensibilità sociale, ma questo è solo un passaggio verso il Chiancone vero, quello dell’interrogatorio filosofico ed esistenziale. Perché Napoli non è solo Napoli, ma la metafora di un mondo che va verso l’inferno o che dall’inferno è appena uscito  e sta attraversando un infinito purgatorio.

Fondamentale per capire questo stato d’animo è il silenzio dimesso dei viaggiatori sistemati per filari di sedili, come oggetti poggiati in una natura morta, ne La funicolare. Su vari ripiani sono seduti i passeggeri, come in una vetrina di negozio. E come nel perimetro dei caffè di Sughi ognuno di loro è chiuso in un silenzio pensieroso. Affiorano alla mente, mentre osservo quel quadro, i versi di Ed è subito sera, dove ognuno trafitto da un raggio di sole se ne sta solo a consumarsi di solitudine, o mi ossessionano le immagini dei convogli fantasma che sessant’anni fà portavano gli ebrei ai lager di sterminio. Nel quadro non cogli l’angheria di qualcuno su qualcun altro, non cogli terrori o angosce, ma l’iconografia scarna della condizione umana, la condizione di chi è a fianco ad altri, ma vive nella solitudine del proprio destino, in una muta dignità, in rapporto con la vita e con la morte. Ognuno chiuso nella funicolare dell’esistenza, un mezzo che va inesorabilmente verso il nulla. Tutto ciò che sta di qua è visibile, l’oltre no.
Durante il tragitto avvengono episodi che ci distraggono dalle domande profonde e infinite: sono il lavoro quotidiano, i rapporti umani, le convenzioni, i sentimenti, la lotta per la sopravvivenza; ma il senso profondo delle cose non sta in tutto questo. Il significato resta inafferrabile.

Di qui la conclusione: la vita è una commedia grottesca, un melodramma sotto le cui spoglie si cela la tragedia dell’assurdo. Chiancone è l’interprete di un assurdo che si rivela attraverso la pensosità dei personaggi raffigurati, attraverso oggetti-metafore: la maschera, i pulcinelli, i giocatori, la commedia dell’arte, le ballerine, le lavoranti. Come direbbe il poeta, siamo rugiada destinata a sparire all’apparire dell’alba e la ragione di questo nostro essere qui è di questo dover apparire e sparire non ci è dato conoscere.

Perciò Chiancone isola i personaggi, azzera i panorami, il contesto e spennella gli sfondi come fossero muri d’interni o luoghi del vuoto. Perché possiamo dire solo ciò che siamo, solo ciò che sappiamo, ma nell’aldiquà, e tra noi e l’altrove c’è un muro o un velo indefinito.

Chi ha visto in Chiancone il pittore di Napoli, o soltanto il postimpressionista figlio del realismo sociale di Napoli è fuori portata,  perché non coglie questo fondamentale carattere metafisico, le sue sospensioni, le rarefazioni della vita laddove la vita non sa e non vuole rispondere. Le ballerine di Chiancone non sono le festose e civettuole figlie di Degas, sono adolescenti, giovinette pensierose, giunte “sul limitare di gioventù”. Il Pulcinella di Chiancone non rappresenta la giocosità della vita contrapposta alla dolorosità della morte, né la fantasmagoria barocca de I balli di Sfessania, tripudio del paganesimo popolare di chi ha deciso di godere tutto e presto in barba al domani incerto, qui Pulcinella è qualcosa di molto meno epico e dimesso, perché è la reazione alla  reboanza epica e storicistica del fascismo è la macchia bianca nella fantasmagoria cromatica della realtà, è la macchia che attrae per stranezza. Chiancone cerca l’umanità dolente della maschera collocata in un tempo in cui sono cadute le certezze della salvezza e della soluzione metafisica. Non c’è certezza del domani, non c’è fiducia nelle umane sorti e progressive, c’è soltanto assoluto buio. E l’uomo camuffato da buffone per inzuccherarci una vita amara o insapore sembra avvertirci: viviamo una vita che è tutta un inganno, viviamo e ci prendiamo in giro, perché la verità è altrove.
Ma dov’è la verità e qual è?

La verità per il pittore è nei grigi, nei colori mai squillanti, nonostante il sole, nonostante la chiaria di Napoli, ed è negli occhi profondi delle ragazze pietrificate in casa o al balcone, negli sguardi persi dei tanti attori con e senza maschera che si aggirano inquieti nel circo della vita. Una vita che si cela sotto la falsità del gioco, sotto il divertimento temporaneo, il lavoro, la danza, lo spettacolo.

Ma negli interstizi dell’operosità e dello stordimento, nelle pause, nelle sospensioni di attivismo, nell’attesa di riprendere le prove, il trasferimento in funicolare, la fine del chiacchiericcio quotidiano, ecco che riappare il vuoto, si ripropone assillante la domanda infinita sull’infinito. E a questo assillo non c’è risposta. C’è semmai un’illusione, una consolazione: il restare in pallida ed assorta contemplazione della bellezza dei panorami, nel rivisitare l’album dei nostri ricordi, nel goderci il calore dei sentimenti e dei rapporti intimi: la famiglia, gli amici, i luoghi natii, i colori, la pittura. Usata come strumento di conoscenza e di denuncia di una tragedia, quella dell’uomo moderno.

Bari 26 settembre 2000

Tratto dal testo del dépliant “Omaggio ad Alberto Chiancone – antologia di opere”, La bottega delle arti, Mola di Bari, ottobre 2000.