Alberto Chiancone

Alcuni testi su Chiancone

Piero Girace

Conosco Chiancone da oltre un trentennio, e l’ho sempre seguito con vivo interesse nelle sue graduali e ponderate evoluzioni stilistiche e poetiche, nelle sue frequenti affermazioni, provando sempre un senso di sorpresa e di commossa ammirazione di fronte alle sue creazioni pittoriche tutte intese ad un sentimento di segreta intimità.
Non poche volte mi sono recato in quel suo studio alto di Via Tito Angelini, nelle prossimità della certosa di San Martino, dove da vari lustri il mio amico lavora in solitudine, nel poco spazio tra i molti quadri ammonticchiati intorno.
La prima volta mi ci recai nel 1934. Alberto Chiancone in quel tempo era alle prese con i nudi di sapore pompeiano, ed in piena reazione a certa pittura aneddotica e piacevole, che aveva ancora consenso e seguito a Napoli.
Egli non è un istintivo puro, né un un impulsivo focoso, ma un ricercatore instancabile, che scava entro di se e da alla sua pittura il tono giusto della sua spiritualità e della sua esperienza tecnica.

Vedevo passare davanti ai miei occhi nudi di donne, ritratti, paesaggi, nature morte. Paesaggi nitidi, compiuti: figure costruite nell’accordo di toni sobri.
- Non mi piace strafare – disse.
Non aggiunse altro. Sopravvenne il silenzio; e fu un silenzio lungo durante il quale i dipinti del mio amico, castigati nel colore, rigorosi nella forma, mi parlavano do una pittura senza soverchie espansioni, senza bravure, misurata, di una compostezza estrema.

Non vuole strafare. In questa frase c’è tutto Chiancone, e forse anche il carattere della sua pittura. Perché egli cerca di raggiungere il tono giusto, o con frase più aggiornata, la moralità nel colore, come insegnano tutti i grandi pittori delle epoche trascorse.

Dopo alcuni anni ritornai allo studio di via Tito Angelini. Elaborava i suoi dipinti con un’ansia di luce e di aria da poeta lirico. Circa dieci anni di meditazioni e di ricerca sulla pittura “en plein air” gli avevano consentito di ottenere ai sensi di una concretezza pittorica e di un superamento stilistico, dei risultati veramente lusinghieri.

Mi stavano davanti i “documenti” di quel felice periodo pittorico che io definirei “della luce e dell’atmosfera”. Stavano li, distribuiti nel piccolo studio, dove si affacciava, carico d’afa corrusco, il tardo pomeriggio estivo. E mi sembrava, contemplandoli, di avvertire nel silenzio meridiano cori di alberi e di case bombardate dal sole, di mari in bonaccia e di piazze deserte dove rade ombre strisciano sul selciato. In ognuno di tali dipinti si sentiva particolarmente la presenza dell’estate, ed anche della primavera che si affacciava con il tono ed i colori di una lirica.

Ma la tendenza di Chiancone al “chiarismo” non era il risultato delle ricerche di quell’ultimo periodo. Essa rimonta ad epoca lontana, al 1937, con il dipinto “Figure all’aperto”, che fu esposto con successo alla Mostra Internazionale di
Parigi, dove pochi pittori italiani furono accettati.

Fin da allora pensava di liberarsi delle pesantezze chiaroscurali, degli impasti grevi, delle corposità e delle sensualità fin troppo comuni alla pittura napoletana, e si avventurava per una nuova strada, tentando di esprimersi con una colorazione più franca e certamente con maggior libertà. Sin da allora egli, con un buon corridore in salita, si allontanava dalla pattuglia dei suoi colleghi, rischiando persino di compromettere il suo prestigio. Una strana scontentezza lo turbava, e lo disorientava: non lo appagavano le conquiste effettuate nell’ordine della plasticità, della monumentalità, dell’espressività: gli occorreva la realizzazione dell’atmosfera e della luce, ed insieme la sintesi di un disegno libero e spregiudicato. I suoi “testi” mi erano davanti: avvertivo in essi contenuti fervori, senso d’interiorità, franchezza espressiva, luminosità e sonorità di colorazione.

La realtà, cui egli sempre si ispira, perde nei suoi dipinti ogni dato veristico o naturalistico, e diventa poetico, raggiungendo spesso un tono lirico.

I colori di Chiancone, così dosati, così profondi – e sempre controllati da una lucida intelligenza – incantano: le sue creature (sartine, ballerine, adolescenti) in ognuna delle quali si cela, come in quelle di Gioacchino Toma, una spiritualità sommessa, potrebbero raccontarci storie intime, perfino inconfessabili di smarrimenti e di tristezze. Mi domando: - Che cosa pensano? Che cosa sognano? Qual è la loro tristezza? Quali desideri urgono in esse? E quelle donne che stanno al balcone? E quelle striratrici stanche in atteggiamento pensoso?

L’intento di Chiancone è quello di creare atmosfere spirituali alla maniera di certi grandi poeti e scrittori, per esempio di un Rilke o di un Cekof, ma senza far della letteratura, puntando principalmente sui valori espressivi della pittura. Non definisce i suoi personaggi: le sue sartine, le sue modiste hanno fisionomie generiche, anonime, ma i loro atteggiamenti di calma o di attività, nei loro inconsueti ritmi compositivi, sostenuti da una notazione coloristica rapida ed intensa (i rossi stinti, i bianchi sporchi, i verdini, i rossi-vinaccia), una notazione fluida e sintetica vivificano l’ambiente saturandolo di echi misteriosi, di accenti sommessi e di larvate malinconie.

Pittore introspettivo, raffinato. Ogni suo dipinto è una confessione. Ed è ancora una pagina del suo non programmato diario pittorico.

Tratto da “Alberto Chiancone” in Artisti contemporanei, Napoli 1970